mercoledì 3 luglio 2013

[A&C] The effect of financialization on labor's share of income

Dünhaupt, Petra, 2013. "The effect of financialization on labor's share of income," IPE Working Papers 17/2013, Berlin School of Economics and Law, Institute for International Political Economy (IPE).

Qual è stato il ruolo della finanziarizzazione dell’economia sulla quota salariale? E’ colpa della finanza se oggi i salari ottengono sempre meno della ricchezza prodotta dall’economia?


Questo è il quesito che si pone questo articolo e di cui si cerca una conferma nei dati economici: il conflitto distributivo si svolge oggi tra salari e stipendi contro dividendi e profitti. Una prima prova dell’influenza della finanza ci viene dal fatto che la percentuale di ricchezza persa dai salari è stato assorbita da dividendi e interessi, più che dai profitti industriali. Un fatto questo che è particolarmente grave, poiché, come viene ricordato nell’articolo, la crescita europea è legata ai salari (wage-led): se questi non salgono o addirittura diminuiscono, vi sarà quindi scarsa crescita.

Come la finanza provoca la diminuzione dei salari? L’autrice identifica 7 elementi: l’orientamento ormai prevalente alla creazione di valore per gli azionisti e la visione di corto termine dei dirigenti aziendali; l’aumento degli stipendi dei managers; una maggiore importanza degli investimenti finanziari rispetto a quelli reali; le acquisizioni ostili e le fusioni, così come la liberalizzazione dei movimenti finanziari e delle merci; la deregolamentazione del mercato del lavoro e la riduzione del settore statale(1).

A partire da questi elementi, l’autrice propone un modello e cerca conferme nei dati empirici. Le 7 cause vengono raggruppate in 3 aree: la globalizzazione, l’orientamento al valore per gli azionisti e l’attività governativa.

Per quanto riguarda la prima l’autrice ipotizza che sia gli Ide  (investimenti diretti esteri) in entrata che quelli in uscita abbiano contribuito a ridurre la quota dei salari sul Pil. Quelli in uscita sono le delocalizzazioni ed è ormai evidente a tutti che questi mettono in competizione i lavoratori locali con quelli stranieri sul costo del lavoro. Meno ovvio è invece l’influenza degli investimenti delle imprese estere nel proprio paese: l’autrice osserva che spesso si tratta di grandi imprese multinazionali, che hanno una maggiore forza contrattuale rispetto ai lavoratori e che quindi indeboliscono la loro capacità di aumentare il proprio salario. Sicuramente in generale l’impatto della deindustrializzazione, un settore dove le organizzazioni del lavoro erano forti, ha fortemente contribuito a diminuire la quota salariale.

L’orientamento alla creazione di valore per gli azionisti ha spinto sempre di più le aziende a concentrarsi sul breve periodo e ad aumentare i dividendi pagati agli azionisti. Questo ha portato, oltre al calo degli investimenti, a una riduzione dei salari per permettere una maggiore distribuzione alla finanza. Inoltre il maggiore indebitamento delle imprese produce una maggiore pagamento di dividendi, quindi una pressione a tenere bassi i salari.

Infine la riduzione del ruolo del governo ha contribuito ulteriormente a diminuire la quota salariale. L’ideologia neoliberista ha ridotto in maniera significativa il ruolo dello Stato in economia. In particolare le imprese dello stato (le partecipazioni statali, o Soe in inglese) erano imprese che, seppure formalmente di capitali, non erano guidate dagli stessi principi delle imprese private. In particolare non dovevano pagare dividendi agli azionisti, quindi potevano reinvestire i profitti in investimenti e potevano garantire salari maggiore. La riduzione di questo ruolo dello Stato ha quindi fatto abbassare ancora i tutti i salari.

L’autrice cerca conferme a queste ipotesi testando un modello econometrico sulla base di dati Ocse. L’apertura dei mercati delle merci si evidenzia come un elemento che ha contribuito ad comprimere i salari, così come gli investimenti in entrata, la disoccupazione, l’aumento del pagamento dei dividendi e la riduzione del ruolo del governo. Risulta invece non influente il flusso in uscita di investimenti (le delocalizzazioni), il tasso di sindacalizzazione e quello di sciopero, così come il pagamento degli interessi. In sostanza i dati dicono che

“Innanzitutto la forza contrattuale dei lavoratori è frenata dall’aumento all’orientazione alla creazione di valore per gli azionisti e dalla visione di corto periodo dei dirigenti, combinata con la globalizzazione e la liberalizzazione dei commerci e della finanza. Inoltre l’aumento dei costi delle merci di importazione hanno un impatto negativo sulla quota dei salari. Infine un aumento delle spese generali nella forma di aumento degli interessi e dei dividendi pagati è fatto a spese dei salari, risultando in un aumento del mark-up e causando una riduzione della quota dei salari. Inoltre il declino dell’attività del governo ha spostato la composizione dell’economia, così come lo spostamento verso il settore finanziario, entrambi hanno contribuito al declino generale della quota salari”(2)

Appunti e commenti

In economia si ha spesso la tentazione di cercare nei dati e nelle statistiche le teorie. Ci si aspetta in pratica che i dati parlino da soli: la scoperta di qualche ricorrenza o di una certa correlazione nei dati porta molti economisti a costruire su questi risultati teorie esplicative. Questo metodo è sbagliato, poiché i dati da soli non parlano, o meglio, possono dire più cose allo stesso tempo, magari in contraddizione tra loro. In questo articolo questo errore non viene fatto. L’autrice propone un modello e lo giustifica brevemente sul piano logico e teorico; in un secondo momento cerca conferme al modello nei dati che sono disponibili. Utilizzando i dati a sua disposizione, alcune conclusioni del modello vengono confermate, mentre altre risultano non supportate dai dati. Anche in questo caso, questo non invalida il modello o diminuisce l’importanza teorica degli altri elementi che non trovano conferma econometrica. Questo potrebbe essere a causa di una mancanza di dati o di altre ragioni che celano il ruolo di quella variabile e fanno si che non trovi conferma nei dati.

Se ci si sofferma sulle variabili confermate dal modello econometrico si ottengono risultati interessanti. Il primo è la conferma empirica che i fenomeni economici degli ultimi decenni hanno giocato contro il lavoro e hanno ridotto la quota salariale. Questo è un risultato importante, se si pensa ai tanti che hanno esaltato la globalizzazione e le liberalizzazioni come delle opportunità per i lavoratori. Un secondo risultato importante è quello sull’impatto negativo degli investimenti esteri nel proprio paese: questi vengono sempre invocati come soluzione alla crisi e si fa di tutto per invogliare i capitali esteri a investire in Italia. Ma il risultato è ancora una volta una diminuzione del salario. Inoltre viene evidenziato chiaramente come un aumento dei dividendi causi una diminuzione dei salari. Molti lavoratori sono stati spinti a investire in borsa i propri risparmi o i conrtibuti della pensione, e lo hanno accettato nella speranza di recuperare, tramite il mercato finanziario quello che avevano perso nella contrattazione sindacale. Il risultato è quindi opposto: tanto più aumenta il ruolo della finanza, tanto più vengono compressi i salari. Infine la fine del ruolo del governo in economia ha contribuito a una riduzione secca dei salari, poiché sono venute a mancare imprese che avevano una visione di lungo periodo e che non dovevano pagare i dividendi agli azionisti.

L’analisi empirica dei dati quindi spiega chiaramente l’avversione di molti lavoratori verso i processi di globalizzazione e di liberalizzazione e dovrebbe spingere le organizzazioni politiche e sindacali a riconsiderare le proprie visioni in materia.

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Note

(1) p. 6

(2) p.18

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