Proteste in Islanda |
Robert
H. Wade & Silla Sigurgeirsdottir, 2012. "Iceland's rise, fall,
stabilisation and beyond," Cambridge Journal of Economics, Oxford
University Press, vol. 36(1), pages 127-144.
Qualche
tempo fa si è parlato molto dell’Islanda, che ha rifiutato di pagare il
debito estero delle proprie banche. Ma cosa è davvero successo? E quali
lezioni si possono trarre? Questo articolo cerca di descrivere e di
trarre una lezione dall’esperienza islandese.
L’articolo
dei due autori si concentra su alcuni punti. L’Islanda è stata infatti
un esempio dei meccanismi che hanno portato al boom e alla recessione
degli anni 2000. Questo processo ha operato su tre livelli secondo gli
autori: è stato un esempio di processo Minsky, in cui l’aumento del
presso dei titoli finanziari creava una crescita utilizzata dalla
finanza per crescere ulteriormente; il potere delle imprese è aumentato ;
lo Stato, invece di mitigare questi processi li ha amplificati. Inoltre
in Islanda si riscontra il controllo di una piccola élite (che gli
autori chiamano flexians), basata su reti sociali flessibili, che
controlla la politica, l’economia e l’informazione. Come osservano gli
autori :
“i flexians operano su reti flessibili, i cui membri sono più leali l’un l’altro che verso l’organizzazione per la quale di volta in volta lavorano. Il movimento di riforma conosciuto come “new public management”, basato sulla premessa che i governi debbano operare più come aziende e debbano incoraggiare l’interscambio di personale tra il settore pubblico e privato, ha creato vaste opportunità per i flexians e per le reti sociali flessibili di guadagnare accesso a informazioni strategiche del settore pubblico e delle scelte politiche, e di diffondere la loro influenza in favore del profitto e la sua ideologia.”(1)
L’Islanda
non è sempre stata prospera e ricca come lo era prima della crisi del
2007. Fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale questa era stata
un’isola povera, fonte di emigrazione, la cui economia era basata sulla
pesca e sull’esportazione di materie prime non lavorate. Dopo la guerra
lo sviluppo dell’isola è accelerato, grazie agli aiuti del Piano
Marshall e a un’economia fortemente regolata, dove viene costruito un
welfare sul modello di quello scandinavo. Dell’Islanda precedente resta
un’organizzazione sociale fortemente corporativa, dove 14 famiglie
controllano l’economia, la politica, lo stato, la finanza e
l’informazione. I partiti di destra hanno sempre governato l’Islanda e
hanno avuto come oppositori i sindacati che hanno difeso il livello di
vita dei lavoratori. Negli anni ‘70 nasce un nuovo gruppo “élitario” “la
locomotiva”, che ha come programma una forte dose di liberalizzazioni:
questo gruppo sarà quello che guiderà l’Islanda nei decenni precedenti.
Sebbene le prime liberalizzazioni siano cominciate negli anni ‘70, la
maggior parte di queste sono state fatte nella fine degli anni ‘80 e
l’inizio degli anni ‘90:sono stati tolti i controlli sui flussi di
capitale e soprattutto sono state privatizzate le banche statali
(1998),che è stato il vero innesco alla crescita finanziaria
dell’Islanda le cui 3 banche in breve tempo sono entrate nelle maggiori
300 mondiali. Ingredienti di questo boom sono stati il sostegno totale
dello Stato agli interessi della finanza (disposto quindi a fare tutto
ciò che chiedevano, tra cui abbassare le tasse fino a far diventare
l’Islanda un paradiso fiscale.), una crescita fittizia dei valori
azionari delle banche e il boom dei mutui. In particolare, per ottenere
bassi tassi di interesse i mutui venivano conclusi in Franchi svizzeri o
in Yen. Il primo vero boom è però stato quello della disuguaglianza(2) e
lo spostamento del carico fiscale sui redditi bassi.
Una
prima crisi c’è stata nel 2006, quando l’ampio deficit delle partite
correnti rese i mercati diffidenti sulla possibilità che la banca
centrale islandese potesse davvero sostenere le banche locali (cresciute
a dismisura) in caso di difficoltà. Poiché la maggior parte del debito
delle banche islandesi era in valuta estera, queste hanno aperto negli
altri paesi delle affiliate che offrivano agli operatori locali
interessi vantaggiosi sui conti correnti, al fine di raccogliere valuta
estera per sostenere il debito contratto.
Quando
nel 2008 fallì la Lehman Brother, anche le banche islandesi saltarono.
La situazione di estrema gravità fu risolta chiedendo un prestito al Fmi
e dal rifiuto del governo di salvare le banche che stavano fallendo.
Per la prima volta inoltre vinse una coalizione di sinistra. In seguito,
con un referendum, il popolo islandese si rifiutò di pagare il debito
estero delle banche(3).
La
coalizione di sinistra però si impegnò in manovre di austerità, tese a
ottenere un surplus del bilancio statale, attraverso un taglio delle
prestazioni pubbliche. Non ci si può stupire di questo. Nonostante la
crisi, “la finanza è restata nel posto di guida”(4), determinando le politiche pubbliche. Ne è prova la decisione del governo nel 2008 di “garantire
una copertura illimitata ai depositanti locali […] quando se questo
fosse stato limitato a 5 Milioni di Corone (70’000 $) avrebbe protetto
il 95% dei depositanti”(5). I sindacati stessi non sono alieni da questa influenza. Infatti:
“La potente Confederazione del lavoro avrebbe potuto rappresentare una voce di avvertimento, ma per decenni è stata co-direttrice, con la Federazione degli impiegati, degli enormi fondi pensione e, per questo, incline a favorire persone e politiche che promettessero alti ritorni sugli investimenti”(6)
Appunti e Commenti
L’Islanda
appare un esempio in miniatura della crisi che ormai da anni stiamo
vivendo. Nella piccola isola nordica si sono prodotti gli stessi
meccanismi che, più in grande, a livello mondiale, hanno provocato la
crisi nel 2007. In sostanza, un’isola che basava la propria ricchezza
sulla pesca e sulle esportazioni di materie prime ha spostato il proprio
centro economico verso la finanza, grazie alle liberalizzazioni, a una
tassazione bassissima e al libero movimento di capitali. L’isola è
diventata in breve tempo un modello per gli economisti liberisti, che ne
hanno decantato le virtù e l’hanno portata a modello per gli altri
paesi. Questa crescita è risultata assolutamente insostenibile per
l’isola che era arrivata ad avere 3 banche tra le prime 300 mondiali. Lo
scoppio di questa bolla ha riportato l’Islanda indietro di decenni e ha
obbligato il governo a reintrodurre i precedenti controlli su capitali e
merci. E le 3 banche passano nella lista degli 11 più grandi collassi
finanziari della storia.
Ci sono alcuni elementi interessanti nel caso islandese.
Il
primo riguarda le banche, che invece di essere salvate con soldi
pubblici (rimanendo private), come negli altri paesi, sono invece state
nazionalizzate. Inoltre si è rifiutato di pagare il debito estero che
queste avevano accumulato per salvarsi dal primo mini crack del 2006. La
conseguenza è che l’Islanda è forse l’unico paese che è uscito a
sinistra dalla crisi. Ma anche qui va notato come la vittoria dei
socialdemocratici abbia portato risultati differenti da quelli che la
popolazione si aspettava. Se nell’immaginario collettivo
“socialdemocratico” fa ancora rima con “stato sociale”, dobbiamo ormai
prendere coscienza che non è più così: la socialdemocrazia mondiale ha
ormai fatto propria la cultura liberista e impone con i propri governi
misure di austerità. A guidare i socialdemocratici oggi è l’interesse
della finanza, non quello della classe lavoratrice.
Il
secondo elemento è il ruolo delle Stato durante la creazione della
bolla. Invece di fungere da controllore e di porre limiti alla crescita
della finanza, questo ha assecondato le domande di un settore che si
ingrandiva sempre di più. In questo caso come in tanti altri, abbiamo
visto un controllore i cui interessi sono stati rapiti dai suoi
controllati. Il comportamento dello Stato è stato quello di lavorare per
la finanza, invece di limitarla, nell falsa convinzione che i due
interessi si sovrapponessero.
E’
interessante notare il ruolo che un’élite ha giocato nello sviluppo del
paese e nella creazione della bolla finanziaria. I flexians
rappresentano un gruppo di persone che, sebbene elette o nominate da
poteri pubblici, perseguono obiettivi diversi da quelli della
popolazione islandese. Anzi si può notare chiaramente come gli interessi
siano contrapposti. La democrazia, soprattutto quando vengono eliminati
i partiti contrari agli interessi privati, non garantisce affatto che
questi vengano estromessi da altri amministratori più legati ai
lavoratori. Questo dovrebbe farci riflettere anche sulla situazione
italiana, dove a torto si sovrappongono queste élite e la politica.
Per
ultimo va notato come gli stessi sindacati siano stati assorbiti dagli
interessi della finanza mondiale. La gestione dei fondi pensione porta i
sindacati a salvaguardare la finanza, dove sono investiti i contributi
dei lavoratori. ma così facendo si rendono complici di danni ben più
gravi per la classe lavoratrice, come il caso islandese evidenzia.
Note:
(1) p. 129
(2) L’indice di Gini, che misura l’ineguaglianza di reddito, passa da 0,26 nel 1995 a 0,43 nel 2007. p. 136
(3)L’attivo delle banche in seguito migliorò, eliminando il problema del pagamento del debito estero.
(4) p.141
(5) p. 141
(6) p. 142
Fonte:
Robert H. Wade & Silla Sigurgeirsdottir, 2012.
"Iceland's rise, fall, stabilisation and beyond,"
Cambridge Journal of Economics,
Oxford University Press, vol. 36(1), pages 127-144.
Abstract: Iceland is an unusually pure example of the dynamics that blocked regulation and caused financial fragility across the developed world for 20 years. This essay describes the statist-and-corporatist political economy of the country as it soared from near the bottom of the Western European income hierarchy at the end of the World War II to up near the top by the 1980s. It illustrates how a group of neoliberal politicians and allied civil servants drove through selective deregulation and privatisation in the 1990s and 2000s. In the space created for newly privatised banks, Icelandic financiers grew the banks and linked private equity firms through mergers and acquisitions abroad to the point where by 2007 tiny Iceland supported three banks in the world's biggest 300 banks, with assets eight times the GDP--second highest in the world after Switzerland. As profits from these overseas operations were partly redistributed back to Iceland the economy boomed, in the grip of super-Minsky processes. The government, the banks and the media interpreted the boom as testimony to the validity of neoliberal policies and went out of their way to hide increasing financial fragility from view, preventing a negative or self-correcting policy feedback loop. The accident waiting to happen happened in the wake of the Lehman collapse in September 2008. The essay charts the zigzags of the government's response and the citizens' response, and discusses the prospects for a resumption of growth on a more sustainable basis. It suggests that Iceland illustrates in miniature the ratcheting down of mass living standards underway across the Western world now that the cushion of debt has been removed, even as financiers and others in the top few percentiles of national income distributions increase their share of national income. But economic institutions and politics matter: in Iceland the large devaluation spread the cut in a relatively 'apolitical' way; the government let the banks go bust rather than bail them out at taxpayers' expense; it imposed capital controls on
outflows; and it used fiscal transfers to protect the bottom half of
the population from disproportionate cuts.
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