Luigi Bonatti & Andrea Fracasso, 2013.
"Origins and prospects of the Euro existential crisis,"
DEM Discussion Papers
2013/03, Department of Economics and Management.
Gli autori cercano, con questo breve articolo, di rispondere a questo problema: come mai la crisi è nata negli Usa, ma è l’Europa che ne sta soffrendo più a lungo e più duramente? E quali saranno gli sviluppi futuri della crisi(1)?
Il primo passo che gli autori compiono è quello di riassumere il processo che ha portato alla creazione dell’Euro. L’idea della moneta unica è nata da due necessità complementari: la Germania e i paese centrali volevano evitare le svalutazioni competitive dei paesi mediterranei; i paesi periferici necessitavano di un “vincolo esterno” per disciplinare i salari e i prezzi. Il processo da’ i primi frutti già negli anni ‘80 dove la Germania ottiene di nuovo dei surplus commerciali (cioè esporta più di quello che importa) e i paesi periferici europei sconfiggono l’inflazione. Ma la costruzione entra palesemente in crisi nel ‘92-3 quando causa l’uscita della Lira e della Sterlina e genera la crisi europea: la ragione sta nelle mancate riforme del governo italiano durante gli anni ‘80 (cioè non è stato tagliato il bilancio), durante i quali l’Italia aumenta il debito pubblico e quello estero, così da rendere poco credibili gli impegni di mantenere il cambio entro la banda di oscillazione prevista dalla Sme. Proprio questa crisi porta alla nascita del progetto della moneta unica: questa avrebbe impedito le svalutazioni competitive e non avrebbe avuto problemi di credibilità, poiché non era possibile uscirne. In più il Patto di Stabilità obbligava i governi a fare i tagli ai bilanci pubblici. Il risultato sperato era che i paesi periferici attuassero quelle riforme del mercato del lavoro per deflazionare i propri salari, seguendo così la moderazione tedesca.
Quello che è avvenuto è stato il contrario: invece di una convergenza tra le economie si è avuta una divergenza, anche a causa di ulteriori tagli alla spesa dei paesi centrali e ad altre operazioni di diminuzione dei salari relativi. A questa mancanza di coordinamento si è aggiunta la Cina, che dal 2001 è membro del Wto e che ha fatto concorrenza proprio ai paesi periferici determinando un ulteriore peggioramento della bilancia commerciale.
Le cause della crisi europea attuale vengono individuate nell’alto debito pubblico dei paesi periferici, dovuti o ai deficit (Italia e Grecia) o al salvataggio delle banche (Irlanda e Spagna) e alla bassa crescita di questi paesi. La soluzione alla crisi dei debiti pubblici è stata l’austerità, che però ha depresso la ricchezza prodotta rendendo ancora più insostenibile il debito pubblico. Questo ha convinto la Bce e i paesi centrali a intervenire. Questo intervento non è però risolutivo, se non nel breve periodo, perché l’unica soluzione nel lungo periodo è che queste economie diventino più competitive: devono cioè effettuare una svalutazione interna rispetto ai propri competitori, riducendo i salari e i prezzi di beni e servizi(2). In sostanza è necessaria una lunga e dura recessione con alta disoccupazione per riequilibrare la situazione dei paesi periferici e centrali(3) (4).
Gli autori si domandano se, per i paesi centrali, sia valsa la pena pagare i costi della nascita dell’Euro. Dal punto di vista della Germania sembra di si. Questa infatti è riuscita a preservare il proprio sistema sociale, fatto di lavori abbastanza stabili e ben pagati, di media qualità, con la collaborazione dei lavoratori nella gestione dell’impresa. L’alternativa che spaventava le élites tedesche era quella dell’americanizzazione della Germania con una forte polarizzazione del lavoro, tra pochi lavori molto qualificati e ben pagati e una massa di lavoratori a basso salario e bassa qualifica, in una società orientata ai consumi più che alla produzione(5).
Infine ci si domanda se l’attuale situazione di impoverimento dei paesi periferici è compatibile con la tenuta dell’Euro. In sostanza si sostiene che i paesi periferici hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità e che devono ora accettare un forte ridimensionamento dei salari, della spesa pubblica e della ricchezza, a causa delle mutate condizioni dell’economia mondiale. Perché questo sia sostenibile, è necessario un miglioramento della situazione economica.
Appunti e commenti
Questo articolo sembra confermare la diffusione anche al di fuori degli ambienti eterodossi della teoria secondo cui alla radice della crisi europea dei debiti pubblici ci sia un problema di bilance commerciali. Questa teoria è stata sostenuta per la prima volta da Emiliano Brancaccio, e sostiene che l’accumulazione del debito non sia dovuta a una cattiva amministrazione dei paesi periferici, ma sia dovuta piuttosto al diverso grado di sviluppo delle economie europee e soprattutto a una forte deflazione salariale imposta ai lavoratori dei paesi centrali. Come descrive abbastanza bene anche l’articolo di Bonatti e Fracasso, questo ha generato surplus commerciali per la Germania e i paesi vicini a fronte di minus per le bilance dei paesi periferici, tra cui l’Italia e la Francia.
A fronte di questa presa di coscienza da parte degli economisti non eterodossi, le soluzioni divergono. In particolare le economie europee si trovano davanti a due possibilità: o aumentare i salari dei paesi centrali (come suggerisce Brancaccio) o diminuire quelli dei paesi periferici (come suggeriscono invece Bonatti e Fracasso). Mentre la proposta di Brancaccio mira ad essere egemonica verso i lavoratori nordici, quella di questo articolo mira a imporre l’austerità e la deflazione salariale ai paesi periferici. La ragione addotta sembra essere che Brancaccio non consideri l’impatto dei paesi extra-Ue, in particolare della Cina: se anche aumentassimo i salari e la spesa pubblica nel Nord Europa, si creerebbero problemi di competitività verso il resto del mondo, con un probabile risultato di creare una bilancia commerciale europea globalmente negativa. Con questo si mira a suggerire che la colpa dell’austerità non è tanto della Germania (che si è adattata alle nuove condizioni del mercato internazionale, attuando una forte deflazione salariale), ma della Cina, che con la sua entrata nel mercato mondiale ha reso insostenibili i precedenti livelli salariali e di spesa pubblica sociale.
Dietro questo ragionamento sembrano esserci alcune assunzioni acritiche. La prima è quella di considerare l’Euro e la sua attuale costruzione come immodificabili: le economie europee sono fortemente diverse e anche in presenza di una forte deflazione salariale difficilmente potrebbero convivere. Sarebbero necessari trasferimenti verso la periferia e investimenti pubblici europei per riequilibrare le varie economie. Altrimenti il risultato sarebbe comunque una migrazione di capitali e di lavoratori verso il centro. Inoltre non tiene conto dei costi sociali e politici di questa deflazione: l’aumento dell’estrema destra in Grecia e in tanti paesi europei è un segnale di cui bisognerebbe tenere conto. La seconda assunzione è quella di mantenere l’attuale regime mondiale di libera circolazione dei capitali e di anarchia monetaria determinata unicamente dal mercato. Una riforma dell’area Euro, così come in caso di uscita di alcuni paesi dalla stessa, prevedono l’adozione di controlli sul movimento dei capitali e una tassazione degli stessi.
Infine forse l’articolo non considera pienamente due aspetti dell’attuale situazione. La prima è che è veramente difficile sostenere, soprattutto in un paese come l’Italia, che si è vissuti al di sopra delle proprie possibilità e che ora si debba per questo tagliare la spesa pubblica e i salari. Ormai quasi il 90% dei contratti sono precari e il livello dei salari ha toccato dei livelli veramente bassi. La seconda è che la Germania non è veramente un paese così armonioso come viene descritto dall’articolo, in cui i lavoratori partecipano alla gestione delle imprese e sono retribuiti con buoni salari. La deflazione salariale ha colpito duramente le condizioni di vita dei lavoratori tedeschi, dove si sono diffusi i mini-job senza tutele e a bassi salari. Anche in Germania i lavori sicuri e classici sono in diminuzione e così le loro condizioni di lavoro.
La crisi impone scelte radicalmente diverse.
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Note
(1) “Può sembrare paradossale che, in seguito a una crisi causata dall’eccessivo accumulo di debito privato degli Usa, gli Usa siano stati capaci di riguadagnare una modesta ma permanente crescita del Pil e di riportare la disoccupazione sotto l’8%, mentre la zona Euro combatte ancora per mettere il proprio debito sotto controllo, con i suoi paesi della periferia sud (Portogallo, Grecia, Italia e Spagna) che soffrono una forte recessione che sta aumentando la disoccupazione a livelli record.” p.3
(2) “[...] senza la possibilità di svalutazioni nominali del tasso di cambio all’interno della zona Euro, un paese periferico può riguadagnare competitività relativamente ai paesi centrali ed extra-Euro solo attraverso una svalutazione interna, cioè riducendo i salari nominali, il prezzo dei beni e dei servizi, della terra e delle case e così via, rispetto ai propri partner commerciali” p. 9
(3) “[...] i paesi periferici non possono evitare che il processo di aggiustamento porti con sé la riduzione dei livelli di consumo e di ricchezza privata, e in generale una riduzione negli standard di vita di una larga parte dei loro cittadini”. p.10
(4) “in questi paesi […] è necessaria una lunga e dolorosa recessione (e un’alta disoccupazione!)” p. 10
(5) “Le élites che governano in Germania sembrano coscienti che l’uscita del paese dall’Euro e il ritorno all’”apprezzato Marco Tedesco” accelererebbe probabilmente l’americanizzazione della società, che molti tedeschi preferiscono evitare. Questo spiega la forte opposizione delle autorità tedesche alle raccomandazioni del Fmi perché la Germania ribilanci il proprio modello di crescita verso la domanda domestica e il settore dei servizi” p. 12
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