Il bilancio del ventennio è racchiuso in un dato: il livello
salariale del 1946 era pressapoco uguale a quello del 1911. Vent’anni
di fascismo hanno portato i lavoratori indietro di oltre trent’anni.
La crisi che stiamo attraversando sta portando una rinascita dei
movimenti di estrema destra in tutti i paesi europei. Questa
avanzata è anche culturale e vede il diffondersi di descrizioni
favorevoli del Ventennio, in cui il popolo italiano avrebbe
beneficiato di un benessere diffuso. Questi risultati vengono
ulteriormente esaltati facendo il confronto con gli insuccessi
politici ed economici della democrazia repubblicana. Tutto questo è
vero? È vero che il fascismo ha migliorato la condizione di tutta
la popolazione? I suoi risultati sono stati migliori della
democrazia repubblicana?
Fascismo ed economia
Un primo mito da sfatare è quello dello “statalismo”
fascista. Gli anni ‘20 sono invece caratterizzati da manovre
che oggi definiremmo liberiste. Lo stesso Mussolini, nel suo primo
discorso alla Camera dei Deputati, indica chiaramente la politica
economica del fascismo:
“D'altra parte, per salvare lo Stato, bisogna fare un'operazione chirurgica. Ieri l'onorevole Orano diceva che lo Stato è simile al gigante Briareo, che ha cento braccia. Io credo che bisogna amputarne novantacinque; cioè bisogna ridurre lo Stato alla sua espressione puramente giuridica e politica. Lo Stato ci dia una polizia, che salvi i galantuomini dai furfanti, una giustizia bene organizzata, un esercito pronto per tutte le eventualità, una politica estera intonata alle necessità nazionali. Tutto il resto, e non escludo nemmeno la scuola secondaria, deve rientrare nell'attività privata dell'individuo. Se voi volete salvare lo Stato, dovete abolire lo Stato collettivista, così come c'è stato trasmesso per necessità di cose dalla guerra, e ritornare allo Stato manchesteriano.”i
Coerentemente con quanto dichiarato, il primo governo Mussolini
privatizzò il monopolio statale sui fiammiferi, eliminò il
monopolio statale sulle assicurazioni sulla vita, privatizzò le reti
telefoniche e le società che fornivano il servizio, ri-privatizzò
l’Ansaldo, concesse ai privati di incassare il pedaggio sulle
autostrade, eliminò la tassa di successione. L’intervento
statale durante il Ventennio è stato attuato esclusivamente dopo la
crisi del ‘29 ed esclusivamente in preparazione della Seconda
Guerra Mondiale, ma venne comunque accompagnato da una
politica di compressione salariale, iniziata nella seconda metà
degli anni ‘20 e che durerà fino alla fine del regime.
L’intervento statale servirà a tenere legate le masse al regime
nel momento di maggiore difficoltà, quando si fanno sentire gli
effetti della crisi economica e la disoccupazione aumenta.
L’intervento in economia avrà un carattere prevalentemente
militare. Come osserva Kalecki
“Il fatto che gli armamenti siano il nerbo della politica fascista di pieno impiego ha un’influenza profonda sul carattere economico di questa. Il riarmo su larga scala si accompagna all’espansione delle forze armate e a piani di conquista. In tale maniera lo scopo principale dell’espansione della spesa pubblica si trasferisce gradualmente dal pieno impiego alla realizzazione del massimo effetto di riarmo. Ciò porta alla limitazione del consumo al di sotto del livello che potrebbe venir ottenuto in corrispondenza del pieno impiego. Il sistema fascista inizia col vincere la disoccupazione, si sviluppa in “economia di guerra” che tende inevitabilmente alla guerra.”ii
Le statistiche del ventennio
Difficilmente però queste considerazioni possono convincere chi oggi
si trova ad affrontare situazioni di forte disagio sociale e cede
alle sirene dei nostalgici. Può risultare efficace sottoporre a
prova empirica le affermazioni dei fascisti del terzo millennio, per
vedere se i decantati fasti del passato siano stati reali o meno.
Un dato che può apparire interessante ai nostri fini è quello del
Pil pro-capite.
Da Vecchi (2011), p.214
La crescita del reddito medio nel periodo fascista non si discosta
significativamente da quella prodotta durante il periodo liberale.
Questo vale tanto per la prima fase (gli anni ‘20) quanto per la
seconda (gli anni ‘30). La scelta di entrare in guerra fatta da
Mussolini, lungi dal portare ricchezza al paese, ha prodotto
un impoverimento generalizzato, che ha fatto crollare in pochi
anni la ricchezza del paese a livelli pre-unitari. Quindi, alla
fine del ventennio, la ricchezza del paese era ben inferiore a quella
precedente al 1921. Questo disastro economico risulta ancora
peggiore se si confronta alla fase repubblicana, dove si osserva
una crescita costante del reddito pro-capite quasi ininterrotta, che
declina solamente a partire dal 2000 in poi.
Se si osserva la distribuzione del reddito, questa magra crescita
risulta essere distribuita in modo assolutamente diseguale.
Da Vecchi (2011), p.307
Gli anni dell’Italia liberale sono caratterizzati non solo da una
crescita media del Pil pro-capite superiore (indicata dalla linea
orizzontale), ma anche da una crescita generale dei redditi, che ha
penalizzato solamente i redditi bassissimi, che non sono quasi
cresciuti (rappresentati dai valori a sinistra). I primi 10 anni
di Italia fascista sono caratterizzati da una crescita quasi nulla e
da una distribuzione di questa crescita ad esclusivo vantaggio del
50% più ricco di popolazione. L’altra metà non si è solo
impoverita in termini relativi, ma in termini assoluti: in questi 10
anni, come si vede, il reddito pro-capite della metà di italiani più
povero è diminuita ogni anno; e più i ceti erano poveri e più il
loro reddito è diminuito. In sostanza il fascismo ha operato come
un Robin Hood al contrario, che ha rubato ai poveri per dare ai
ricchiiii.
La distribuzione del reddito è stata molto diseguale anche a
livello territoriale.
Da Vecchi (2011), p.221
In questo grafico si può osservare l’andamento del Pil per
abitante nelle diverse zone d’Italia. Come si vede la
distribuzione del reddito va a beneficio del Nord-Ovest
industrializzato (ricordando sempre che al contempo va a
beneficio dei ceti più ricchi), a scapito del Sud e delle Isole
che hanno osservato un impoverimento costante dall’Unità d’Italia
fino al 1951 (quando la situazione si inverte grazie agli
investimenti pubblici). Anche in questo caso, a fronte di una
crescita nulla, quote di ricchezza sono state quindi trasferite dal
Sud al Nord. Come prima, il fascismo ha agito al contrario di quando
avrebbe dovuto fare, ma soprattutto al contrario di quanto gli viene
oggi attribuito: ha deindustrializzato e impoverito il Sud e ha
arricchito gli industriali del Nord (impoverendo al contempo gli
operai che vi lavoravano). Per dirla con una terminologia
contemporanea, ha favorito l’1% a scapito del restante 99%.
La povertà, altro indicatore che testimonia l’incidenza
delle politiche fasciste, è aumentata ininterrottamente dal 1921 al
1948.
Da Vecchi (2011), p.297
I salari nel Ventennio
È possibile osservare l’effetto delle politiche fasciste
osservando l’andamento dei salari. Lo studio della Zamagni (1975)
sui salari durante il ventennio ci permette di capire quali siano
state le dinamiche.
ANNI
|
Salari reali giornalieri in
lire del 1938
|
Indice 1913=100
|
Variazione % annua
|
Salari reali orari in lire
del 1938
|
Indice 1913=100
|
Indice Occupazione 1929=100
|
Ore lavorate
|
1911
|
11,30
|
88
|
1,13
|
88
|
10
|
||
1912
|
12,02
|
93
|
6,37
|
1,20
|
93
|
10
|
|
1913
|
12,87
|
100
|
7,07
|
1,29
|
100
|
10
|
|
1914
|
14,00
|
109
|
8,78
|
1,40
|
109
|
10
|
|
1915
|
14,42
|
112
|
3,00
|
1,44
|
112
|
10
|
|
1916
|
12,60
|
98
|
-12,63
|
1,15
|
89
|
11
|
|
1917
|
12,07
|
94
|
-4,21
|
1,10
|
85
|
11
|
|
1918
|
11,60
|
90
|
-3,90
|
1,05
|
81
|
11
|
|
1919
|
15,14
|
118
|
30,51
|
1,89
|
147
|
8
|
|
1920
|
16,69
|
130
|
10,23
|
2,09
|
162
|
93
|
8
|
1921
|
17,34
|
135
|
3,89
|
2,31
|
192
|
81
|
7,5
|
1922
|
16,45
|
128
|
-5,14
|
2,11
|
160
|
83
|
7,8
|
1923
|
17,12
|
133
|
4,07
|
2,09
|
162
|
84
|
8,2
|
1924
|
17,02
|
132
|
-0,59
|
2,00
|
155
|
92
|
8,5
|
1925
|
16,25
|
126
|
-4,53
|
1,91
|
148
|
100
|
8,5
|
1926
|
15,84
|
123
|
-2,53
|
1,84
|
143
|
102
|
8,6
|
1927
|
16,08
|
125
|
1,51
|
2,09
|
162
|
94
|
7,7
|
1928
|
14,93
|
116
|
-7,16
|
2,08
|
161
|
98
|
7,2
|
1929
|
14,72
|
114
|
-1,41
|
2,02
|
157
|
100
|
7,3
|
1930
|
14,62
|
114
|
-0,68
|
2,09
|
162
|
97,8
|
7
|
1931
|
14,74
|
114
|
0,82
|
2,17
|
168
|
88,8
|
6,8
|
1932
|
14,80
|
115
|
0,40
|
2,20
|
170
|
78,5
|
6,7
|
1933
|
15,76
|
122
|
6,48
|
2,27
|
176
|
79,4
|
7
|
1934
|
15,92
|
123
|
1,01
|
2,31
|
179
|
82,9
|
6,9
|
1935
|
14,35
|
111
|
-9,87
|
2,26
|
175
|
93,9
|
6,4
|
1936
|
13,98
|
109
|
-2,58
|
2,23
|
173
|
94,9
|
6,3
|
1937
|
14,81
|
115
|
5,93
|
2,27
|
176
|
104,5
|
6,5
|
1938
|
14,28
|
111
|
-3,58
|
2,26
|
175
|
110,7
|
6,3
|
1939
|
15,51
|
121
|
8,61
|
2,37
|
184
|
114,2
|
6,6
|
1940
|
18,71
|
145
|
20,63
|
2,35
|
182
|
8
|
|
1941
|
17,08
|
133
|
-8,72
|
2,13
|
165
|
8
|
|
1942
|
15,95
|
124
|
-6,62
|
1,99
|
154
|
8
|
|
1943
|
13,91
|
108
|
-12,79
|
1,65
|
128
|
8
|
|
1944
|
5,16
|
40
|
-62,91
|
0,64
|
50
|
8
|
|
1945
|
8,47
|
60
|
64,14
|
1,06
|
82
|
8
|
|
1946
|
11,27
|
88
|
33,05
|
1,41
|
109
|
8
|
Da
Zamagni (1975), p.532, 538, 542
Se si osserva il periodo pre-fascista si possono osservare tre
movimenti: prima della Prima Guerra Mondiale, quando i salari sono in
aumento; durante il periodo bellico questi subiscono una forte
diminuzione (da 1,44 lire all’ora a 1,05); durante il biennio
rosso ‘19-’21 si osserva un forte aumento. Inoltre dopo la
guerra l’orario di lavoro viene ridotto a 8 ore giornaliere. In
quest’ultimo periodo i salari raddoppiano in termini orari (da 1,05
a 2,31) e aumentano di circa il 30% a livello giornaliero (da 11,60 a
17,34) in termini reali.
Su questo periodo Zamagni osserva:
“Se si aggiungono agli effetti degli aumentati costi di lavoro e della crisi economica quelli (se non altro paventati) della tassazione dei sovraprofitti di guerra, si hanno eloquenti elementi per valutare quanto apparisse grave la situazione tra il 1920 e il 1922 al mondo imprenditoriale, specialmente a quello dell’industria pesante, che fu infatti il più largo di aiuti a Mussolini.”iv
Il trend iniziato con il Biennio Rosso si inverte con la salita al
potere del fascismo. Come si vede dalla tabella, il salario
giornaliero diminuisce costantemente dal picco del 1921 fino al 1927.
Parallelamente si osserva un aumento del tempo di lavorov.
A conferma di quanto osservato precedentemente, la prima fase del
fascismo fu caratterizzata da un programma economico ultra-liberale
in cui, con le privatizzazioni e lo smantellamento del ruolo dello
stato in economia, viene redistribuita la ricchezza dagli operai
verso gli industriali, con una compressione del salario e con
l’aumento del tempo di lavoro. La crescita, grazie alle politiche
fasciste, andò ad esclusivo beneficio delle classi possidenti.
Dopo l’inflazione post-bellica, con conseguente svalutazione
della lira rispetto alle altre valute, il regime decise una
rivalutazione della moneta nazionale: in un famoso discorso a
Pesaro, Mussolini fissò quota 90 Lire contro una Sterlina. Senza la
variazione in termini nominali dei salari, grazie alla diminuzione
dell’inflazione, questi avrebbero potuto aumentare in termini
reali. Il regime intervenne quindi in due occasioni tagliando i
salari prima del 10% poi del 20%. Zamagni descrive così le
scelte politiche di Mussolini:
“La discesa dei prezzi che seguì la rivalutazione della lira presentò al regime ormai consolidato la necessità di intervenire per una decurtazione dei salari monetari, dato che non voleva alienarsi l’appoggio della classe imprenditoriale scaricandole addosso il peso della stabilizzazione monetaria concepita da Mussolini in funzione prevalentemente politica. Nessuno poteva inoltre prevedere allora che tali riduzioni non sarebbero rimaste affatto isolate. Si inaugura così un periodo di sostanziale stagnazione dei salari reali che, sia pur in mezzo ad inevitabili oscillazioni, dura fino al 1939. Tale stagnazione è frutto di una deliberata politica di intervento da parte del regime ogniqualvolta i salari reali mostravano una tendenza ad allontanarsi troppo da un certo livello minimo considerato “acquisito” - di sussistenza – e che si può indicare intorno alle 15 lire del 1938.”
Ulteriori tagli ai salari furono fatti negli anni ‘30. Per
tutto il decennio questi stagnarono, sotto l’effetto della crisi
economica e delle politiche del regime. Nonostante i provvedimenti
sociali (che determinarono però anche un aumento dei contributi) non
vi fu un miglioramento nella distribuzione del reddito.
“La disaggregazione dei consumi nelle componenti principali rivela però che il disagio delle classi più povere dovette essere ben maggiore, se già dal 1924 i generi alimentari di origine vegetale iniziarono la loro ripida discesa, fermatasi solo nel 1937; la crisi del 1927 venne registrata anche dai consumi di origine animale e dai grassi, mentre i generi di vestiario declinarono solo dal 1930 in poi (la spesa per l’abitazione, che sale violentemente dal 1926 al 1935, lungi dal rivelare un miglioramento dello standard di vita, è indice del fatto che una certa liberalizzazione dei canoni di affitto, da un lato, e la loro rigidità monetaria, dall’altro, finirono col fare incidere di più questo capitolo di spesa sul bilancio domestico, a parità, o a deterioramento, di prestazioni).”vi
I salari si ripresero solo dal 1939 in poi grazie alla preparazione
dello sforzo bellico, e con il fine di assicurarsi l’appoggio dei
lavoratori alla guerra. Poco dopo furono però decimati dagli effetti
della partecipazione alla guerra. Il bilancio del ventennio è
racchiuso in un dato: il livello salariale del 1946 era pressapoco
uguale a quello del 1911. Vent’anni di fascismo hanno portato i
lavoratori indietro di oltre trent’anni.
Zamagni riassume questa tendenza di lungo periodo
“La compressione salariale come condizione della via italiana all’accumulazione venne restaurata con la forza, sì che essa durò praticamente indisturbata per altri 25 anni e richiese poi altri quindici anni per essere gradualmente posta in liquidazione, non senza strascichi di notevole rilevanza.”vii
Conclusioni
Appare chiaro che non ci sono basi per sostenere che il fascismo
abbia lavorato a beneficio del popolo italiano nel suo insieme, o
addirittura che abbia attuato politiche in favore delle classi
popolari. È invece chiaro che, dietro la retorica nazionalistica, si
celavano politiche apertamente di classe, atte a favorire una
redistribuzione del reddito e della ricchezza verso l’alto e a
ripristinare condizioni economiche tali per riavviare l’accumulazione
e permettere di competere con gli altri capitali nazionali. In
sostanza, il fascismo, spezzando le organizzazioni dei lavoratori
e reprimendo le lotte, ha permesso di ridurre il costo del lavoro
fino a livelli di sussistenza, creando così le condizioni
migliori per gli imprenditori italiani, dopo l’incubo (per loro)
del biennio rosso che seguiva gli echi della Rivoluzione d’Ottobre.
È oggi quindi importante sfatare il mito, sempre più diffuso,
che un ritorno dell’estrema destra al potere possa essere di
beneficio per le classi popolari “autoctone”. Questo non è
avvenuto storicamente e non avverrà oggi. I referenti sociali di
queste forze sono gli stessi del secolo scorso, e come allora,
dietro la retorica del “prima gli italiani”, lavorano sempre
per ridurre il costo del lavoro in nome del sacrificio per la patria.
*Ricercatore indipendente
FONTI
Mussolini, B., Discorso alla Camera dei Deputati, 21 Giugno 1921
Kalecki, M., Aspetti politici del pieno impiego
Vecchi, G., 2011, In ricchezza e in povertà. Storia del benessere
degli italiani dall’Unità ad oggi, il Mulino,
Zamagni, V., "La dinamica dei salari nel settore industriale
1921-1939", Rivista Quaderni Storici (Maggio-Dicembre 1975),
n.29-30
Note
i Mussolini,
B
ii Kalecki
iii Gli
altri due grafici possono aiutare a caratterizzare altre due epoche
della storia economica e politica italiana. Il periodo ‘77-’91,
che rappresenta le ultime lotte sociali e gli anni ‘80 del
Pentapartito è caratterizzato da un tasso di crescita alto e da una
distribuzione in favore dei ceti bassi, che decresce al crescere del
reddito. Al contrario, il periodo ‘91-2008, corrispondente alla
Seconda Repubblica, con l’alternarsi di centro destra e centro
sinistra, vede i redditi bassi decrescere o stagnare, mentre
aumentano i redditi altissimi.
iv Zamagni, p. 534-5
v “Già
nel 1923 Mussolini, pur riaffermando la giornata di 8 ore,
introdusse parecchi eccezioni; il 30 Giugno 1926 i datori di lavoro
vennero autorizzati a prolungare la giornata di lavoro da 8 a 9 ore
(cosa che era già praticamente in vigore in parecchi settori).
Gualerni afferma che le ore aggiuntive dovevano essere prestate
gratuitamente soltanto in quelle industrie, come le tessili, che
dovevano sostenere l’urto della concorrenza straniera.” Zamagni,
p. 536
vi Zamagni,
p. 547
vii Zamagni,
p. 535
Nessun commento:
Posta un commento