L'articolo 18 visto da Altan |
Ormai da almeno un decennio, l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori è al centro di tentativi di controriforma, da parte di governi e di maggioranze diverse. Molta confusione è stata fatta attorno ad esso, spesso con il solo obiettivo di legittimarne la modifica. Questa confusione ha relegato il dibattito a una discussione tra specialisti del diritto del lavoro, con il resto dell’Italia a fare da pubblico o da tifosi. L’importanza di questo articolo necessita un’attenzione maggiore e più consapevole.
Per diversi motivi l’articolo 18 è diventato una lotta anche simbolica: chi vuole modificarlo (sempre in peggio) ha obiettivi che vanno oltre alla semplice modifica dei rapporti di lavoro. Questo lo si capisce bene se si affronta il problema da due punti di vista: da un punto di vista storico, per analizzare da dove esso nasce, all’interno di quale modello economico e con quali obiettivi; da un punto di vista teorico, a quale sistema di valori e di idee si ispira e da quale sistema alternativo si muovono gli oppositori.
Cavallaro distingue tra tre tipi di diritti: quelli civili (o diritti di libertà, nati per garantire all’individuo una sfera di libertà), quelli politici (che permettono la partecipazione dei cittadini alla formazione della volontà collettiva) e quelli sociali (che garantiscono il soddisfacimento di alcuni bisogni fondamentali e di un dato livello di benessere per tutti). Per quanto riguarda il lavoro, esistono due interpretazioni: quella del lavoro come diritto civile (il diritto di lavorare), tipico delle impostazioni liberali; quella del lavoro come diritto sociale (il diritto a lavorare), tipico della tradizione socialista. La differenza fondamentale tra le due impostazioni è che nella seconda sorge l’obbligo per lo stato di garantire il lavoro e una retribuzione adeguata per tutti i cittadini.
Questa seconda impostazione presuppone che esista un’economia regolata dallo stato, in cui esista qualche forma di pianificazione pubblica tanto riguardo alla produzione che riguardo alla sua organizzazione. L’articolo 18 è nato in un periodo storico, quello del secondo dopoguerra, in cui l’economia italiana, così come quella degli altri paesi, veniva diretta dalle decisioni pubbliche, attraverso l’impegno diretto dello stato e attraverso la regolamentazione. Da un lato, secondo Cavallaro, veniva garantito un tasso certo di accumulazione del capitale, attraverso le politiche della domanda, e dall’altro veniva assicurata la sicurezza dell’impiego e una sua parziale demercificazione. Proprio questo era l’obiettivo dell’articolo 18:era un tassello all’interno del sistema di regolamentazione direzione pubblica dell’economia italiana.
D’altra parte esso era frutto e garanzia di un potere del lavoro sul processo di produzione. Le lotte dei lavoratori organizzati nel sindacato, partite durante la seconda guerra mondiale, avevano permesso di guadagnare potere all’interno del processo produttivo e di concorrere alle decisioni relative al quanto e come produrre. Lo Statuto dei Lavoratori era la sanzione dei rapporti di forza raggiunti e la regolazione formale degli stessi.
La situazione odierna è assolutamente diversa da quella degli anni ‘70. L’autore osserva come si sia imposta a livello europeo un’impostazione di tipo liberale, che ha avuto due conseguenze sul sistema italiano. Da un lato ha impedito agli stati di intervenire direttamente nell’economia, lasciando le decisioni esclusivamente alla libertà delle imprese e abbandonando quelle politiche della domanda che garantivano, insieme allo stato sociale, il pieno impiego del lavoro. Dall’altro ha imposto una visione liberale di diritto di lavorare, cancellando il diritto al lavoro e con esso l’impegno dello stato nel perseguirlo. Questo ha portato alla creazione di contratti flessibili che rendono il lavoro una merce il cui prezzo deve essere determinato non dalla contrattazione nazionale, bensì dalla domanda (scarsa) e dall’offerta (sovrabbondante). In mancanza di politiche di pieno impiego, questo la flessibilità del lavoro ha portato a una redistribuzione della disoccupazione.
L’attacco ormai decennale all’articolo 18 è un ulteriore passo su questa strada: cancellarlo o limitarne gradualmente la portata significa perseguire l’obiettivo di rendere il lavoro (e con esso le persone e le loro vite) una merce al pari delle altre.
Le tesi del libro, dichiarate nell’introduzione, sono che
“1)la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro trasforma il diritto al lavoro da diritto civile dei contratti in diritto sociale di cittadinanza 2)[...]il diritto al lavoro sta e cade insieme alla possibilità che la classe lavoratrice riesca ad esprimere un qualche potere politico sui mezzi di produzione che le si contrappongono in forma di capitale 3) un simile potere si dà effettivamente nella misura in cui il processo capitalistico viene assogettato […] ad una politica economica generale 4) […] [Questo] implica, su un piano macroeconomico, che i pubblici poteri si facciano ‘garanti’ degli sbocchi attraverso opportune politiche di sostegno della domanda”(1)
In mancanza di un potere sul capitale, osserva giustamente Cavallaro con Marx, il diritto sociale la lavoro diventa un “meschino pio desiderio”.
Nel suo ragionamento, sostanzialmente giusto, Cavallaro compie però, a mio parere, due errori.
Nella trattazione del processo di smantellamento del diritto al lavoro, Cavallaro sembra attribuire questo a una riduzione dei costi da parte dall’impresa(2). Questo appare in contraddizione con le affermazioni che ha fatto precedentemente: se il diritto al lavoro era il frutto di un potere dei lavoratori, la sua cancellazione non è altrettanto una riconquista di parti di potere sul processo produttivo da parte dell’impresa?
Il secondo errore che sembra compiere riguarda i sistemi nordici, caratterizzati da un’altissima flessibilità dentro un quadro di forte spesa pubblica sociale (non in deficit), cosiddetta Flexsecurity(3). Mentre i sistemi sud europei vengono caratterizzati come conservatori, questi gli appaiono come l’alternativa migliore all’attuale situazione. Questo sembra essere la conseguenza del fatto che Cavallaro faccia dipendere il potere dei lavoratori sul processo di produzione esclusivamente dall’ammontare di spesa pubblica. Se così è, sembra suggerire che vi possa essere controllo sul processo produttivo da parte dei lavoratori anche in presenza di un’elevata flessibilità e mercificazione del lavoro. Dopo aver condannato la contro riforma italiana che sostituisce il reintegro con un risarcimento monetario, Cavallaro porta come alternativa proprio un modello in cui ciò avviene.
Il libro appare certamente utile per descrivere la genesi e l’evoluzione del sistema economico italiano, all’interno del quale si è sviluppato il diritto del lavoro. Ci si aspettava da Cavallaro, che non è un economista ma un giudice del lavoro, a fronte di tanta disinformazione, una maggiore attenzione a cosa sia esattamente l’articolo 18 dal punto di vista giuridico,quando e come questo venga utilizzato, quali garanzie effettivamente dia ai lavoratori e quali invece siano solo degli effetti mitizzati dai suoi avversari.
Citazione dal testo:
“Il problema, tuttavia, è che, se non ci sono risorse per fare tagli alle tasse, la svalutazione è impossibile, la politica monetaria è nelle mani della Banca Centrale Europea, e i margini per quella di bilancio sono modesti, la sola via per garantire il diritto al lavoro – che lo si voglia o no – passa per l’adozione di un “Modello competitivo puro”, fatto di sostituzione dei contratti collettivi nazionali a favore di quelli aziendali e di progressiva deregolamentazione del mercato del lavoro su base regionalistica, in una sorta di dumping sociale [concorrenza al ribasso], nel quale le regioni verrebbero costrette a farsi reciprocamente concorrenza per accaparrarsi domanda di lavoro, offrendo condizioni normative più favorevoli alle imprese, sia italiane che (soprattutto) straniere.” Pg. 76
Luigi Cavallaro
A cosa serve l’articolo 18
ManifestoLibri, 2012, 15 euro
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Note
(1)Pg. 8-9
(2)Pg.65
(3)Vd. Cap. 4
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