martedì 6 marzo 2018

Fascismo e disuguaglianza sociale


Il bilancio del ventennio è racchiuso in un dato: il livello salariale del 1946 era pressapoco uguale a quello del 1911. Vent’anni di fascismo hanno portato i lavoratori indietro di oltre trent’anni.

La crisi che stiamo attraversando sta portando una rinascita dei movimenti di estrema destra in tutti i paesi europei. Questa avanzata è anche culturale e vede il diffondersi di descrizioni favorevoli del Ventennio, in cui il popolo italiano avrebbe beneficiato di un benessere diffuso. Questi risultati vengono ulteriormente esaltati facendo il confronto con gli insuccessi politici ed economici della democrazia repubblicana. Tutto questo è vero? È vero che il fascismo ha migliorato la condizione di tutta la popolazione? I suoi risultati sono stati migliori della democrazia repubblicana?

Fascismo ed economia

Un primo mito da sfatare è quello dello “statalismo” fascista. Gli anni ‘20 sono invece caratterizzati da manovre che oggi definiremmo liberiste. Lo stesso Mussolini, nel suo primo discorso alla Camera dei Deputati, indica chiaramente la politica economica del fascismo:

D'altra parte, per salvare lo Stato, bisogna fare un'operazione chirurgica. Ieri l'onorevole Orano diceva che lo Stato è simile al gigante Briareo, che ha cento braccia. Io credo che bisogna amputarne novantacinque; cioè bisogna ridurre lo Stato alla sua espressione puramente giuridica e politica. Lo Stato ci dia una polizia, che salvi i galantuomini dai furfanti, una giustizia bene organizzata, un esercito pronto per tutte le eventualità, una politica estera intonata alle necessità nazionali. Tutto il resto, e non escludo nemmeno la scuola secondaria, deve rientrare nell'attività privata dell'individuo. Se voi volete salvare lo Stato, dovete abolire lo Stato collettivista, così come c'è stato trasmesso per necessità di cose dalla guerra, e ritornare allo Stato manchesteriano.”i
Coerentemente con quanto dichiarato, il primo governo Mussolini privatizzò il monopolio statale sui fiammiferi, eliminò il monopolio statale sulle assicurazioni sulla vita, privatizzò le reti telefoniche e le società che fornivano il servizio, ri-privatizzò l’Ansaldo, concesse ai privati di incassare il pedaggio sulle autostrade, eliminò la tassa di successione. L’intervento statale durante il Ventennio è stato attuato esclusivamente dopo la crisi del ‘29 ed esclusivamente in preparazione della Seconda Guerra Mondiale, ma venne comunque accompagnato da una politica di compressione salariale, iniziata nella seconda metà degli anni ‘20 e che durerà fino alla fine del regime. L’intervento statale servirà a tenere legate le masse al regime nel momento di maggiore difficoltà, quando si fanno sentire gli effetti della crisi economica e la disoccupazione aumenta. L’intervento in economia avrà un carattere prevalentemente militare. Come osserva Kalecki

Il fatto che gli armamenti siano il nerbo della politica fascista di pieno impiego ha un’influenza profonda sul carattere economico di questa. Il riarmo su larga scala si accompagna all’espansione delle forze armate e a piani di conquista. In tale maniera lo scopo principale dell’espansione della spesa pubblica si trasferisce gradualmente dal pieno impiego alla realizzazione del massimo effetto di riarmo. Ciò porta alla limitazione del consumo al di sotto del livello che potrebbe venir ottenuto in corrispondenza del pieno impiego. Il sistema fascista inizia col vincere la disoccupazione, si sviluppa in “economia di guerra” che tende inevitabilmente alla guerra.”ii

Le statistiche del ventennio
Difficilmente però queste considerazioni possono convincere chi oggi si trova ad affrontare situazioni di forte disagio sociale e cede alle sirene dei nostalgici. Può risultare efficace sottoporre a prova empirica le affermazioni dei fascisti del terzo millennio, per vedere se i decantati fasti del passato siano stati reali o meno.

Un dato che può apparire interessante ai nostri fini è quello del Pil pro-capite.
 
Da Vecchi (2011), p.214

La crescita del reddito medio nel periodo fascista non si discosta significativamente da quella prodotta durante il periodo liberale. Questo vale tanto per la prima fase (gli anni ‘20) quanto per la seconda (gli anni ‘30). La scelta di entrare in guerra fatta da Mussolini, lungi dal portare ricchezza al paese, ha prodotto un impoverimento generalizzato, che ha fatto crollare in pochi anni la ricchezza del paese a livelli pre-unitari. Quindi, alla fine del ventennio, la ricchezza del paese era ben inferiore a quella precedente al 1921. Questo disastro economico risulta ancora peggiore se si confronta alla fase repubblicana, dove si osserva una crescita costante del reddito pro-capite quasi ininterrotta, che declina solamente a partire dal 2000 in poi.

Se si osserva la distribuzione del reddito, questa magra crescita risulta essere distribuita in modo assolutamente diseguale.

 
Da Vecchi (2011), p.307

Gli anni dell’Italia liberale sono caratterizzati non solo da una crescita media del Pil pro-capite superiore (indicata dalla linea orizzontale), ma anche da una crescita generale dei redditi, che ha penalizzato solamente i redditi bassissimi, che non sono quasi cresciuti (rappresentati dai valori a sinistra). I primi 10 anni di Italia fascista sono caratterizzati da una crescita quasi nulla e da una distribuzione di questa crescita ad esclusivo vantaggio del 50% più ricco di popolazione. L’altra metà non si è solo impoverita in termini relativi, ma in termini assoluti: in questi 10 anni, come si vede, il reddito pro-capite della metà di italiani più povero è diminuita ogni anno; e più i ceti erano poveri e più il loro reddito è diminuito. In sostanza il fascismo ha operato come un Robin Hood al contrario, che ha rubato ai poveri per dare ai ricchiiii.

La distribuzione del reddito è stata molto diseguale anche a livello territoriale.

Da Vecchi (2011), p.221

In questo grafico si può osservare l’andamento del Pil per abitante nelle diverse zone d’Italia. Come si vede la distribuzione del reddito va a beneficio del Nord-Ovest industrializzato (ricordando sempre che al contempo va a beneficio dei ceti più ricchi), a scapito del Sud e delle Isole che hanno osservato un impoverimento costante dall’Unità d’Italia fino al 1951 (quando la situazione si inverte grazie agli investimenti pubblici). Anche in questo caso, a fronte di una crescita nulla, quote di ricchezza sono state quindi trasferite dal Sud al Nord. Come prima, il fascismo ha agito al contrario di quando avrebbe dovuto fare, ma soprattutto al contrario di quanto gli viene oggi attribuito: ha deindustrializzato e impoverito il Sud e ha arricchito gli industriali del Nord (impoverendo al contempo gli operai che vi lavoravano). Per dirla con una terminologia contemporanea, ha favorito l’1% a scapito del restante 99%.

La povertà, altro indicatore che testimonia l’incidenza delle politiche fasciste, è aumentata ininterrottamente dal 1921 al 1948.
Da Vecchi (2011), p.297
I salari nel Ventennio

È possibile osservare l’effetto delle politiche fasciste osservando l’andamento dei salari. Lo studio della Zamagni (1975) sui salari durante il ventennio ci permette di capire quali siano state le dinamiche.

ANNI
Salari reali giornalieri in lire del 1938
Indice 1913=100
Variazione % annua
Salari reali orari in lire del 1938
Indice 1913=100
Indice Occupazione 1929=100
Ore lavorate
1911
11,30
88

1,13
88

10
1912
12,02
93
6,37
1,20
93

10
1913
12,87
100
7,07
1,29
100

10
1914
14,00
109
8,78
1,40
109

10
1915
14,42
112
3,00
1,44
112

10
1916
12,60
98
-12,63
1,15
89

11
1917
12,07
94
-4,21
1,10
85

11
1918
11,60
90
-3,90
1,05
81

11
1919
15,14
118
30,51
1,89
147

8
1920
16,69
130
10,23
2,09
162
93
8
1921
17,34
135
3,89
2,31
192
81
7,5
1922
16,45
128
-5,14
2,11
160
83
7,8
1923
17,12
133
4,07
2,09
162
84
8,2
1924
17,02
132
-0,59
2,00
155
92
8,5
1925
16,25
126
-4,53
1,91
148
100
8,5
1926
15,84
123
-2,53
1,84
143
102
8,6
1927
16,08
125
1,51
2,09
162
94
7,7
1928
14,93
116
-7,16
2,08
161
98
7,2
1929
14,72
114
-1,41
2,02
157
100
7,3
1930
14,62
114
-0,68
2,09
162
97,8
7
1931
14,74
114
0,82
2,17
168
88,8
6,8
1932
14,80
115
0,40
2,20
170
78,5
6,7
1933
15,76
122
6,48
2,27
176
79,4
7
1934
15,92
123
1,01
2,31
179
82,9
6,9
1935
14,35
111
-9,87
2,26
175
93,9
6,4
1936
13,98
109
-2,58
2,23
173
94,9
6,3
1937
14,81
115
5,93
2,27
176
104,5
6,5
1938
14,28
111
-3,58
2,26
175
110,7
6,3
1939
15,51
121
8,61
2,37
184
114,2
6,6
1940
18,71
145
20,63
2,35
182

8
1941
17,08
133
-8,72
2,13
165

8
1942
15,95
124
-6,62
1,99
154

8
1943
13,91
108
-12,79
1,65
128

8
1944
5,16
40
-62,91
0,64
50

8
1945
8,47
60
64,14
1,06
82

8
1946
11,27
88
33,05
1,41
109

8
Da Zamagni (1975), p.532, 538, 542
Se si osserva il periodo pre-fascista si possono osservare tre movimenti: prima della Prima Guerra Mondiale, quando i salari sono in aumento; durante il periodo bellico questi subiscono una forte diminuzione (da 1,44 lire all’ora a 1,05); durante il biennio rosso ‘19-’21 si osserva un forte aumento. Inoltre dopo la guerra l’orario di lavoro viene ridotto a 8 ore giornaliere. In quest’ultimo periodo i salari raddoppiano in termini orari (da 1,05 a 2,31) e aumentano di circa il 30% a livello giornaliero (da 11,60 a 17,34) in termini reali.

Su questo periodo Zamagni osserva:
Se si aggiungono agli effetti degli aumentati costi di lavoro e della crisi economica quelli (se non altro paventati) della tassazione dei sovraprofitti di guerra, si hanno eloquenti elementi per valutare quanto apparisse grave la situazione tra il 1920 e il 1922 al mondo imprenditoriale, specialmente a quello dell’industria pesante, che fu infatti il più largo di aiuti a Mussolini.”iv
Il trend iniziato con il Biennio Rosso si inverte con la salita al potere del fascismo. Come si vede dalla tabella, il salario giornaliero diminuisce costantemente dal picco del 1921 fino al 1927. Parallelamente si osserva un aumento del tempo di lavorov. A conferma di quanto osservato precedentemente, la prima fase del fascismo fu caratterizzata da un programma economico ultra-liberale in cui, con le privatizzazioni e lo smantellamento del ruolo dello stato in economia, viene redistribuita la ricchezza dagli operai verso gli industriali, con una compressione del salario e con l’aumento del tempo di lavoro. La crescita, grazie alle politiche fasciste, andò ad esclusivo beneficio delle classi possidenti.

Dopo l’inflazione post-bellica, con conseguente svalutazione della lira rispetto alle altre valute, il regime decise una rivalutazione della moneta nazionale: in un famoso discorso a Pesaro, Mussolini fissò quota 90 Lire contro una Sterlina. Senza la variazione in termini nominali dei salari, grazie alla diminuzione dell’inflazione, questi avrebbero potuto aumentare in termini reali. Il regime intervenne quindi in due occasioni tagliando i salari prima del 10% poi del 20%. Zamagni descrive così le scelte politiche di Mussolini:
La discesa dei prezzi che seguì la rivalutazione della lira presentò al regime ormai consolidato la necessità di intervenire per una decurtazione dei salari monetari, dato che non voleva alienarsi l’appoggio della classe imprenditoriale scaricandole addosso il peso della stabilizzazione monetaria concepita da Mussolini in funzione prevalentemente politica. Nessuno poteva inoltre prevedere allora che tali riduzioni non sarebbero rimaste affatto isolate. Si inaugura così un periodo di sostanziale stagnazione dei salari reali che, sia pur in mezzo ad inevitabili oscillazioni, dura fino al 1939. Tale stagnazione è frutto di una deliberata politica di intervento da parte del regime ogniqualvolta i salari reali mostravano una tendenza ad allontanarsi troppo da un certo livello minimo considerato “acquisito” - di sussistenza – e che si può indicare intorno alle 15 lire del 1938.”
Ulteriori tagli ai salari furono fatti negli anni ‘30. Per tutto il decennio questi stagnarono, sotto l’effetto della crisi economica e delle politiche del regime. Nonostante i provvedimenti sociali (che determinarono però anche un aumento dei contributi) non vi fu un miglioramento nella distribuzione del reddito.

La disaggregazione dei consumi nelle componenti principali rivela però che il disagio delle classi più povere dovette essere ben maggiore, se già dal 1924 i generi alimentari di origine vegetale iniziarono la loro ripida discesa, fermatasi solo nel 1937; la crisi del 1927 venne registrata anche dai consumi di origine animale e dai grassi, mentre i generi di vestiario declinarono solo dal 1930 in poi (la spesa per l’abitazione, che sale violentemente dal 1926 al 1935, lungi dal rivelare un miglioramento dello standard di vita, è indice del fatto che una certa liberalizzazione dei canoni di affitto, da un lato, e la loro rigidità monetaria, dall’altro, finirono col fare incidere di più questo capitolo di spesa sul bilancio domestico, a parità, o a deterioramento, di prestazioni).”vi
I salari si ripresero solo dal 1939 in poi grazie alla preparazione dello sforzo bellico, e con il fine di assicurarsi l’appoggio dei lavoratori alla guerra. Poco dopo furono però decimati dagli effetti della partecipazione alla guerra. Il bilancio del ventennio è racchiuso in un dato: il livello salariale del 1946 era pressapoco uguale a quello del 1911. Vent’anni di fascismo hanno portato i lavoratori indietro di oltre trent’anni.

Zamagni riassume questa tendenza di lungo periodo
La compressione salariale come condizione della via italiana all’accumulazione venne restaurata con la forza, sì che essa durò praticamente indisturbata per altri 25 anni e richiese poi altri quindici anni per essere gradualmente posta in liquidazione, non senza strascichi di notevole rilevanza.”vii

Conclusioni
Appare chiaro che non ci sono basi per sostenere che il fascismo abbia lavorato a beneficio del popolo italiano nel suo insieme, o addirittura che abbia attuato politiche in favore delle classi popolari. È invece chiaro che, dietro la retorica nazionalistica, si celavano politiche apertamente di classe, atte a favorire una redistribuzione del reddito e della ricchezza verso l’alto e a ripristinare condizioni economiche tali per riavviare l’accumulazione e permettere di competere con gli altri capitali nazionali. In sostanza, il fascismo, spezzando le organizzazioni dei lavoratori e reprimendo le lotte, ha permesso di ridurre il costo del lavoro fino a livelli di sussistenza, creando così le condizioni migliori per gli imprenditori italiani, dopo l’incubo (per loro) del biennio rosso che seguiva gli echi della Rivoluzione d’Ottobre.

È oggi quindi importante sfatare il mito, sempre più diffuso, che un ritorno dell’estrema destra al potere possa essere di beneficio per le classi popolari “autoctone”. Questo non è avvenuto storicamente e non avverrà oggi. I referenti sociali di queste forze sono gli stessi del secolo scorso, e come allora, dietro la retorica del “prima gli italiani”, lavorano sempre per ridurre il costo del lavoro in nome del sacrificio per la patria.

*Ricercatore indipendente

FONTI

Mussolini, B., Discorso alla Camera dei Deputati, 21 Giugno 1921

Kalecki, M., Aspetti politici del pieno impiego

Vecchi, G., 2011, In ricchezza e in povertà. Storia del benessere degli italiani dall’Unità ad oggi, il Mulino,

Zamagni, V., "La dinamica dei salari nel settore industriale 1921-1939", Rivista Quaderni Storici (Maggio-Dicembre 1975), n.29-30

Note

i Mussolini, B


ii Kalecki
iii Gli altri due grafici possono aiutare a caratterizzare altre due epoche della storia economica e politica italiana. Il periodo ‘77-’91, che rappresenta le ultime lotte sociali e gli anni ‘80 del Pentapartito è caratterizzato da un tasso di crescita alto e da una distribuzione in favore dei ceti bassi, che decresce al crescere del reddito. Al contrario, il periodo ‘91-2008, corrispondente alla Seconda Repubblica, con l’alternarsi di centro destra e centro sinistra, vede i redditi bassi decrescere o stagnare, mentre aumentano i redditi altissimi.
iv Zamagni, p. 534-5
v Già nel 1923 Mussolini, pur riaffermando la giornata di 8 ore, introdusse parecchi eccezioni; il 30 Giugno 1926 i datori di lavoro vennero autorizzati a prolungare la giornata di lavoro da 8 a 9 ore (cosa che era già praticamente in vigore in parecchi settori). Gualerni afferma che le ore aggiuntive dovevano essere prestate gratuitamente soltanto in quelle industrie, come le tessili, che dovevano sostenere l’urto della concorrenza straniera.” Zamagni, p. 536
vi  Zamagni, p. 547
vii Zamagni, p. 535

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